Le vicende delle emittenti libere italiane soprattutto nei primi anni d’esistenza, vennero funestate da numerosi e sgradevoli episodi, dovuti alla mancanza di un’adeguata regolamentazione del settore.

Un gesto che oggi appare scontato, quale scorrere la banda FM con tutto ciò che offre, lo stesso che la tecnologia digitale potrebbe presto rendere obsoleto, non lo era affatto a metà anni ’70. I pochi possessori di radio in grado di ricevere le trasmissioni in modulazione di frequenza, trovavano una banda sostanzialmente vuota, utilizzata solo dalla Rai e da isolati casi di emittenti definite “clandestine”, gestite da un manipolo di temerari che incuranti delle eventuali conseguenze, sfidavano ogni giorno il monopolio di Stato. Quello che accadde dal luglio 1976, quando una sentenza della Corte costituzionale sancì, di fatto, la libertà d’antenna è cosa nota, le radio libere si moltiplicarono fino a diventare qualche migliaio negli anni ’80.

L’aspetto singolare della questione fu che per regolamentare un evento così complesso, bisognò attendere il 1990 con la promulgazione della legge Mammì dal nome del suo promotore, l’allora ministro delle poste e telecomunicazioni Oscar Mammì, in grado di soddisfare solo in parte le esigenze di strutture divenute in taluni casi grandi aziende, perché’ concepita soprattutto per il settore televisivo, relegando la radio a un ruolo di secondo piano.

Fino a quel momento la prima raccomandazione che i tecnici del settore rivolgevano sulle poche riviste specializzate a chi volesse cimentarsi nella creazione di un marchio radiofonico, era di procurarsi un trasmettitore bello potente, perché con le frequenze ormai sature, solo con un segnale in grado di sovrastare quello della concorrenza, si aveva qualche speranza di potersi fare sentire. Va da se che in un paese cosiddetto civile, si venne a creare una situazione a dir poco assurda dove a vigere, era la legge del più forte, io stesso all’epoca adolescente avevo i miei bravi problemi a sintonizzare tra mille scrosci e disturbi l’emittente di turno, spesso bastava spostarsi di pochi chilometri per ricevere un segnale concorrente che trasmetteva se non sulla stessa, nei paraggi della medesima frequenza che si desiderava ascoltare.

Gli editori poi si facevano guerra fra loro, con metodi non sempre ortodossi. I pochi avvocati specializzati nel settore editoriale, avevano il loro bel da fare a dirimere le cause fra emittenti dovute più che altro alle interferenze dei rispettivi segnali, i legali erano (e lo sono tuttora) talmente pochi da dover faticare nella tutela delle proprie regole deontologiche, perché non era insolito che si ritrovassero a difendere in una causa, i diritti di chi magari avevano accusato in un processo precedente, peculiarità tutta italiana. Gli stessi giudici facevano fatica a esprimere un giudizio, ritenevano, infatti, che in fase penale a causa di atti di pirateria, affinché un reato fosse perseguibile l’aspetto materiale fosse imprescindibile, di conseguenza le onde radio essendo tali non potessero essere danneggiate.

Anche in sede civile sussistevano non pochi problemi perché in mancanza di un’assegnazione ufficiale, ciascuna emittente occupava la frequenza che riteneva opportuna senza alcuna autorizzazione e risultava complicato esprimersi su qualcosa di cui non si era in grado di dimostrare il possesso. Insomma la situazione caotica in cui riversava la FM nostrana andò avanti per lungo tempo e tuttora esistono contenziosi in sospeso, ad esempio tra noti marchi e Comuni che non tollerano per tutelare la salute pubblica, la presenza di tralicci sul loro territorio.